Per l'inglese clicca qui         

Capitolo Uno

 

Probabilmente, questa storia non dovrebbe essere raccontata. Forse sarebbe meglio che certe cose rimanessero non dette. Ma desidero davvero raccontare la storia della forza e della passione di una donna straordinaria. Infatti, se non fosse stato per quella donna, io non sarei nato.

La nostra storia inizia...


“No, non devo farlo”, pensò Hughie Hewitt, immaginando le devastanti conseguenze. Conseguenze che avrebbero colpito non solo lui, ma anche quell'adorabile donna di venticinque anni seduta davanti a lui.

Correva l'anno 1946. Durante una fredda notte d'inverno, nell'Upper East Side di Manhattan, un uomo dalla figura esile sulla trentina abbondante ed una bella ragazza erano seduti al bar debolmente illuminato del ristorante italiano "Rao's". L'aroma speziato della salsa alla marinara riempiva l'aria mentre un vecchio orologio di legno suonava l'ora: erano le tre del mattino. I due erano gli ultimi clienti rimasti nel locale. La luce della fiamma della candela tremolava riflettendosi sul delicato volto di lei, mentre si avvicinava all'uomo. 

Bouvette Sherwood si perse nell'azzurro intenso degli occhi di quell'uomo attraente e ben rasato, inconsapevole del pericolo che la attendeva. Hughie Hewitt conosceva il pericolo, ma non disse niente ugualmente. Lei lo affascinava. Cercando di nascondere il proprio supplizio interiore, Hughie la osservò mentre si pettinava fieramente i capelli castani ramati. i suoi movimenti creavano una cascata di colore brillante, inviando onde di luce a cascata lungo i bei capelli rossicci. L'infatuazione in lui crebbe. Lei sorseggiava la sua Coca Cola alla ciliegia. 

“Un angelo”, pensò Hughie. “Sono al cospetto di un angelo”.

Il campanello suonò ed un ometto con un sigaro piantato in un angolo della bocca fece il suo ingresso nel bar.

"Qualcuno di voi, gente, ha chiamato un taxi?" chiese, pulendosi il naso.

"Sì, io. Solo un attimo", disse Bouvette, sorridendo educatamente.

            Si voltò verso l’uomo alto e discreto con il quale era seduta e disse: “È stato davvero bello poterla finalmente conoscere, signor Hewitt”. Sebbene lei lo avesse già incontrato varie volte, erano stati ufficialmente presentati soltanto alcune ore prima. “Le sue storie sono deliziose e la sua compagnia lo è altrettanto. Non ridevo così tanto da anni.”

            “Anche a me è piaciuto stare in sua compagnia, signorina Sherwood”, disse lui, facendo scorrere un dito esile sul bordo del bicchiere, “forse più di quanto avrei dovuto.”

            “Cosa intende? Ha una moglie gelosa?”

            “Oh, no”, rispose lui. “Non sono sposato, ma, forse, vedersi non sarebbe una buona idea”, aggiunse, con l’espressione di un bambino che ha appena perso il suo animaletto.

            “E perché mai?” domandò la ragazza, sorpresa dall’improvviso cambiamento di tono del suo interlocutore.

            “Probabilmente non è una buona idea”. Finì di bere il Dewar’s White Label che gli era rimasto nel bicchiere.

            “Faccia come crede”, disse lei in modo amichevole, come se non le importasse. “Comunque, è stata una bella serata e…”

            “Signorina, non ho tutta la notte…”, esordì il tassista.

            Si alzarono dal tavolo e si spostarono verso l’appendiabiti smaltato di nero che si trovava in un angolo della stanza. Lui la aiutò ad indossare la lunga pelliccia di visone, sentendosi eccitato dal dolce profumo di lei. La ragazza si fermò e si voltò verso di lui, osservando teneramente come le braccia di Hughie si infilassero nelle maniche del suo cappotto di lana consumato. Bouvette sentì che ci fosse qualcosa di sbagliato.

            “Perché, tutto d’un tratto, è così triste? È per qualcosa che ho detto?”

            “Oh, no, non è lei… Sono io… Mi spiace… È stata davvero una splendida serata”, disse, sorridendo per mascherare la tristezza. In un attimo, passò accanto al tassista per poi uscire dalla porta. Gli occhi di Hughie rivelarono una traccia di dolorosa disperazione. Si girò verso di lei, salutò frettolosamente con la mano e disse: “Buonanotte”.

            “Buonanotte”, rispose lei. Un attimo dopo, era sparito.

            Bouvette si sistemò il cappotto e tornò al bar. Voltandosi verso Vincent Rao, il barista e proprietario del ristorante, Boo disse: “Il tuo amico è proprio un bell’uomo, ma sembra un tipo malinconico”.

            “È la persona più gentile e dolce che tu possa incontrare sulla faccia della terra. Siamo cresciuti insieme.” Bouvette vide uno scintillio di sincerità brillare nei dolci occhi castani di Vincent, i quali erano incorniciati da delle sopracciglia folte, “da italiano”.

            “Viene spesso qui?”

            “Non passa un giorno senza che non veda il mio amico Hughie.”

            “Signorina, non ho tutta la notte. Vuole il taxi o cosa?” disse il tassista, chiedendosi per quanto ancora quella ragazza dai capelli rossi gli avrebbe fatto sprecare tempo.

            “Sì, certo. Andiamo. Buonanotte, Vincent.”

            “Ciao, Boo”, rispose Vincent: la maggior parte degli amici di Bouvette era solita chiamarla ‘Boo’. Un attimo dopo era fuori dalla porta, il tassista dietro di lei. Le guance di Boo diventarono rosa a contatto con l’aria gelida della notte newyorkese, sentiva il freddo filtrarle attraverso i guanti di cuoio. Quindi, spinse per aprire la portiera ed entrò nel taxi giallo.

            “Dove la porto?”, chiese il tassista.

            “Al 737 di Park Avenue”, rispose Boo.

            Mentre partivano, la neve iniziò a cadere in fiocchi simili a paracadute che volteggiavano, capricciosi, nel vento.

 

Hughie Hewitt stava camminando lungo il marciapiede freddo con passo pesante, triste, con la mente infestata dalla rossa accattivante che aveva appena lasciato. Una raffica di vento gli colpì il viso con dei fiocchi di neve, accecandolo per un momento, mentre si faceva strada verso la chiesa cattolica di St Paul.

            Aveva bisogno di pregare.

            Noncurante del freddo e del mormorio della neve sotto le suole sottili delle scarpe, i suoi pensieri continuavano ad essere fissi su Boo.

            “Dio, ho bisogno d’aiuto”, pensò. Normalmente, l’alcool calmava la sua passione per le donne, però quella notte aveva avuto l’effetto opposto: stava lottando contro il desiderio che imperava nelle profondità della sua anima.

            La voleva. Desiderava di sentirla, di stringerla, di assaggiare il suo dolce sapore, di assaporare quel giovane corpo in fiamme attaccato al suo e le sue belle labbra strettamente premute contro quelle di lui. Visioni come questa lo tormentavano.

            Hugh non aveva mai concesso a se stesso di soccombere a tali brame. La voglia di una compagnia femminile sfrigolava in maniera insostenibile in lui, accendendogli un fuoco dentro: l’unica àncora di salvezza era stata l’alcool, ma iniziava ad essere fallace. Doveva essere forte. Doveva pregare.

            Si fermò di fronte a St Paul ed osservò la neve tingere di bianco il tetto della vecchia chiesa. Il lamento di una sirena in lontananza ruppe il silenzio della notte. Trattenendo le lacrime, Hugh si chiese se fosse stato il caso di entrare. Ma aveva bisogno del suo Dio, perciò entrò nella Casa del Signore.

            Hughie si fermò un istante per immergere le dita sottili nell’acqua santa. Il suo tocco leggero creò delle lievi increspature ai lati dell’acquasantiera; quelle increspature erano simili a quelle di agonia che sentiva dentro di sé. Si genuflesse. L’unico suono udibile era quello delle sue scarpe sul pavimento di marmo. Si inginocchiò al cospetto del Crocefisso, dopodiché scoppiò in lacrime.

            “Qualcosa non va, padre Hewitt?”. Un’anziana tarchiata con un maglione nero ed una scopa in mano si avvicinò a lui.

            “Oh, niente, signora Sullivan, ho solo avuto un cattivo pensiero. Adesso è passato, sto bene. Cosa ci fa qui a quest’ora di notte?” disse Hughie.

            “Suvvia, padre Hewitt, sa benissimo cosa ci faccio qui: sono quasi le cinque del mattino; devo spazzare la chiesa prima che padre O’ Brien dica messa alle sei”, rispose la signora Sullivan. La sua cadenza irlandese faceva la spia sulla sua immigrazione anni addietro.

            “Oh, è già così tardi? Devo aver perso la cognizione del tempo. Allora, buonanotte, signora Sullivan. Cioè, volevo dire, buongiorno.” Ogni parola da lui pronunciata faceva sì che l’alito alcoolico venisse spinto verso di lei.

            “Buona giornata, padre”, disse, facendo girare il manico della scopa e rimproverandolo con lo sguardo, osservandolo attraverso gli occhiali spessi.

            Padre Hewitt oltrepassò in modo imbarazzante la porta accanto ai confessionali intagliati a mano, scomparendo al di là del refettorio. Sgattaiolò silenziosamente nei corridoi, attraverso la scala scoscesa che conduceva alle sue stanze private. La camera di padre O’Brien si trovava all’altro capo di quel corridoio buio. Hughie camminò con passo felpato, sperando di non incontrarlo: non aveva alcuna voglia di giustificarsi ancora.

            Padre Daniel O’Brien, un irlandese con la testa piena di capelli bianchi, portava male i suoi sessantaquattro anni. Si trovava biblioteca del refettorio, appollaiato sulla sua sedia preferita, traboccante di cose. Con un colpetto del dito sporco di rosso, girò pagina al suo taccuino dei sermoni, in vista dell’imminente messa delle sei. Inumidì la punta del suo lapis con la saliva, poi prese degli appunti con una bella calligrafia, degna di quella di un fisico.

            Aveva avvertito un “swoof, swoof” provenire dal corridoio: era il passo felpato di Hughie, attuito ulteriormente dalla moquette orientale sul pavimento.

            “Padre Hewitt?”, esordì padre O’Brien, alzandosi. Hughie rimase paralizzato davanti alla porta aperta della biblioteca.

            “Per la miseria, padre Hewitt! Non sarai mica rimasto fuori tutta la notte a bere, vero?”, domandò il vecchio irlandese. Di solito non era così austero nei confronti del collega e amico. Sebbene Hughie fosse il parroco, rimase timidamente davanti a padre O’Brien, come uno scolaretto beccato ad intingere la coda di cavallo della sorella nel calamaio. Restò in silenzio.

            “Non ho intenzione di sostituirti un’altra volta, come la scorsa domenica, visto che eri in uno stato pietoso per aver alzato troppo il gomito la sera prima”. La sua collera crebbe finché non riuscì a percepire il dolore che affliggeva l’amico. Perciò disse gentilmente: “Non credi di aver tirato un po’ troppo la corda?” Ancora silenzio. “Bene, Hughie, io torno a preparare la messa. Riposati. Ne riparleremo domani”. Si spinse verso il metro e novantadue di Hughie per dargli una pacca sulla spalla.

            A testa bassa, Hughie si diresse alla sua camera da letto. La scala scricchiolò come se venisse ferita dal peso che Hughie sentiva sull’anima. Entrato in camera, andò direttamente verso un mobile di ciliegio: lo aprì e prese una bottiglia mezza vuota di Dewar’s. Con le mani tremanti, se ne versò in grande quantità in un bicchiere sporco d’acqua. Lo bevve in un sorso e se ne servì un altro immediatamente; le mani tremavano un po’ meno.

            Finì di bere il secondo bicchiere mentre si spogliava. Dopodiché, crollò sul letto. L’alcool stava adempiendo i suoi doveri: il tumulto interiore soccombeva all’effetto annebbiante dell’alcool. La sua mente vagò fino al forte odore d’incenso che aveva sospeso in aria il giorno in cui aveva preso i voti. Ricordava quanto era stato contento di inginocchiarsi davanti al vescovo Newheart, di diventare, finalmente, un prete, come sognava fin da bambino. Sapeva di non poter abbandonare il sacerdozio; era chi era e tutto ciò che aveva sempre saputo evoluto essere. Tuttavia, quel desiderio segreto di compagnia si era fatto strada, facendolo soffrire, negli ultimi anni. Al buio e nel suo letto caldo, una lacrima fece capolino dalla palpebra chiusa, per poi scendere lungo la guancia e venire ingoiata dal cuscino.  Boo fu il suo ultimo pensiero prima di sprofondare in in desiderato stato di incoscienza.

 

 

  

 

 


Fai clic qui per continuare a leggere.

 

 

© Copyright 2020 Alpine Publishing, Inc.  All rights reserved worldwide.